Di Luca Bianchi
Il risultato elettorale nelle regioni del Mezzogiorno richiede una riflessione approfondita e complessa.
Il tempo intercorso dalle elezioni permette un’analisi che superi la congiuntura elettorale e che ci costringa a fare i conti con un Paese che è uscito dalla crisi con un ampliamento delle divisioni economiche e territoriali; divisioni che si riflettono chiaramente nella nuova geografia politica del Paese.
La lunga crisi economica che ha colpito il Paese ha lasciato nel Sud ferite profonde, in termini di reddito e di occupazione con l’aggravante di un’ulteriore ampliamento delle disuguaglianze interne. La concentrazione degli effetti della crisi sulle fasce più deboli della popolazione, in primo luogo i giovani e le famiglie a basso reddito, hanno fatto emergere dal Sud un grido di dolore che non può essere liquidato con letture semplicistiche. Una interpretazione incentrata sulla sola richiesta di politiche assistenzialiste (in sintesi, il reddito di Cittadinanza a cinque stelle) oltre che sbagliata non riflette la complessità della società meridionale ricca di dinamismo e di consapevolezza della necessità di cambiamento.
È soprattutto la componente giovanile della popolazione meridionale che percepisce un’assenza di prospettiva stretta nella morsa della carenza di occasioni di impiego (tra il 2008 e il 2017 il tasso di occupazione dei giovani di età compresa tra i 15 e 34 anni si è ridotta di 10 punti scendendo sotto il 40%) e della necessità di emigrare (200 mila laureati meridionali nello stesso periodo se ne sono andati a lavorare al Nord o all’estero).
La SVIMEZ lo aveva segnalato chiaramente nell’ultimo Rapporto sottolineando come le aree di insicurezza (come testimonia l’ampliamento non solo della povertà assoluta ma soprattutto della popolazione a rischio povertà) si stavano ampliando profondamente estendendosi anche a famiglie con all’interno un occupato o un percettore di pensione.
Le trasformazioni in atto nell’economia e nella società richiedono dunque dalla politica interventi di accompagnamento e progetti di investimento, in primo luogo in capitale umano e innovazione, a favore di coloro che rischiano di risultare perdenti dalle nuove sfide della competizione internazionale. La paura di essere esclusi dai processi di modernizzazione, diffusa in tutto il Paese, può generare, in aree strutturalmente caratterizzate da bassi livelli di occupazione e da più diffuse aree di marginalità, un senso di isolamento e di insoddisfazione che le tradizionali ricette delle politiche di sviluppo non riesce a soddisfare. I pur importanti progressi conseguiti negli ultimi anni che hanno consentito, anche grazie agli interventi del Governo (le misure resto al Sud, la previsione delle Zone Economiche Speciali, la clausola del 34% degli investimenti al Sud, Il Master Plan, solo per citarne alcune), di agganciare la ripresa nazionale, facendo registrare, fatto tutt’altro che scontato, per ben due anni tassi di crescita nel Sud più alti che nel resto del Paese, non hanno intaccato le aree di disagio, concentrate soprattutto nelle periferie dei grandi centri urbani del Sud.
Soprattutto è rimasto drammaticamente inferiore nelle regioni meridionali il livello dei servizi pubblici.
Lo sviluppo concreto dei diritti di cittadinanza è la chiave fondamentale per mobilitare le enormi risorse, umane, ambientali, culturali ancora inutilizzate presenti nel Mezzogiorno, che, se messe a valore, potrebbero contribuire significativamente alla stessa ripresa del Paese. Ancora oggi al cittadino del Sud, nonostante una pressione fiscale pari, se non superiore per effetto delle addizionali locali, mancano (o sono carenti) diritti fondamentali: in termini di vivibilità dell’ambiente locale, di sicurezza, di adeguati standard di istruzione, di idoneità di servizi sanitari e di cura per la persona adulta e per l’infanzia. Si tratta di carenze di servizio che si riflettono sulla vita dei cittadini ma che condizionano decisamente anche le prospettive di crescita economica, perché diventano fattori che giocano un ruolo non accessorio nel determinare l’attrazione di nuove iniziative imprenditoriali.
Occorre assumere la consapevolezza che la politica di coesione non può essere solo politica “spaziale” di intervento (attraverso incentivi fiscali, contratti di sviluppo, investimenti pubblici) ma deve essere accompagnata da politiche territorialmente differenziate nel Mezzogiorno, in grado di riequilibrare la qualità di alcuni beni pubblici essenziali. Ne sono un esempio la qualità dell’assistenza sanitaria, l’offerta di assistenza domiciliare per gli anziani, il numero di posti negli asili nido, la regolarità nella fornitura dell’acqua, la gestione dei rifiuti, l’offerta scolastica e formativa. Interventi che per essere efficaci devono mettere a coerenza investimenti sulle infrastrutture (viabilità, edilizia scolastica, macchinari sanitari, ecc) con una riorganizzazione della spesa corrente che assicuri efficienza e competenze adeguate. Dunque, passare dalla politica per stanziamenti finanziari a quella per obiettivi in termini di miglioramento dei servizi per il cittadino e per l’imprenditore, aumentando così anche la possibilità di misurare l’impatto delle risorse impiegate.
Porre al centro il tema dei servizi ai cittadini e alle imprese può essere anche il campo su cui ricostruire all’interno della società del Mezzogiorno quelle reti sociali che sono venute meno con la crisi dei corpi intermedi tradizionali. Intorno alle nuove forme di welfare associativo che svolgono un ruolo decisivo nelle regioni del Centro-Nord di accompagnamento al welfare pubblico ma che sono quasi inesistenti da Roma in giù, possono generarsi nuove forme di partecipazione dei cittadini e, potenzialmente, anche nuove forma di impiego per i giovani scolarizzati del Sud. Ma anche restituendo una funzione ai sindacati della pubblica amministrazione che vanno chiamati ad una corresponsabilità nella definizione dei risultati e delle azioni necessarie per il loro conseguimento. Tasselli per la ricostruzione di quella cultura democratica partecipativa (richiamata nelle newsletter ISRIL n.9/2018) che può rappresentare nel medio periodo l’unica risposta a quel grido di aiuto che è arrivato dal Sud il 5 marzo.
Un disegno impegnativo, un mutamento di approccio che riconduca ad un nuovo protagonismo dell’intera società meridionale che vada di pari passo al miglioramento e potenziamento della macchina pubblica, evitando che la protesta divenga soltanto un nocivo e antistorico rivendicazionismo sudista.
(Fonte: Nota ISRIL)